La Sibilla: a tutta falanghina

La famiglia è il cardine della storia vinicola de La Sibilla e dei Di Meo, che da sempre sono legati alla falanghina questa “striscia di terra protesa verso il mare” nei Campi Flegrei.

Viticoltori da cinque generazioni, sono oggi i fratelli Mattia, Salvatore e Vincenzo ad occuparsi dell’azienda. Non manca, però, il supporto di papà Luigi e di mamma Restituta Somma, che nei primi anni Duemila decisero di cominciare a imbottigliare, profondendo sforzi nel fare qualità in una zona – siamo a Bacoli – storicamente nota, più che altro, per i volumi di uva prodotta.

La logica è quella dei «piccoli passi sempre in avanti», come piace ripetere a Luigi, sguardo sognante ma piedi ben saldi per terra. In un momento in cui sembrerebbero talvolta prevalere le (false) ragioni dell’apparire a tutti i costi, i Di Meo continuano a badare piuttosto alla sostanza delle cose, lavorando sodo, con umiltà e concretezza: testa bassa e pedalare, si direbbe in gergo ciclistico.

Non ero mai stato a La Sibilla, perciò sono davvero felice di aver posto rimedio visitando le vigne e l’azienda a fine febbraio scorso, in concomitanza con l’uscita di un’annata che si preannuncia molto interessante per la falanghina. L’etichetta per così dire “base” targata 2021 ha frutto e polpa, ma anche tanto sale e acidità, e Vincenzo, che è anche l’enologo di casa, spiega bene il perché delle cure riservate: «è la nostra bottiglia più importante, non la possiamo proprio sbagliare».

Gli assaggi da vasca e dei primi imbottigliamenti destinati agli Stati Uniti, e poi il riassaggio a distanza di qualche settimana, hanno chiarito pure bene perché potremmo parlare di un’annata di svolta: rispetto al passato, le masse delle diverse parcelle, compreso quella situata a ridosso dei resti dell’antica villa di Cesare Augusto (da sempre riservata alla produzione della Falanghina Domus Giulii), sono ora vinificate tutto allo stesso modo.

Proprio l’etichetta più ambiziosa è quella che è stata oggetto di un radicale ripensamento. La Domus Giulii 2012, ultima annata licenziata, prevedeva una macerazione sulle bucce che se da un lato conferiva una maggiore complessità olfattiva, dall’altro – se posso dire – finiva talvolta per appesantire il sorso e renderlo quasi incompiuto. Ecco, abbandonata ogni velleità di macerazione sulle bucce, la barra è dritta sulla rotta dell’esaltazione di slancio e profondità gustativa e aromatica, che sono poi le costanti dei vini che si ottengono dai grappoli di quella parcella, la più alta sulla collina flegrea.

Decisamente convincente era già, invece, l’altra interpretazione della falanghina, della quale ho sempre annotato la genialità del nome – Cruna de Lago – e performance di gran livello, ancor più nelle ultime annate. La 2019, tanto per dirne una, è ancora all’inizio, ma farà strada; Cruna de Lago 2008 è oggi semplicemente strepitosa: piena, carnosa, pirica e martellante per sapidità, arricchita di una rinfrancante freschezza balsamica.

Permettetemi un’ultima segnalazione per la Falanghina “base” targata 2013, in stato di grazia, sorprendente per tenuta e armonia, fine e appagante, fresca e salina, dal sorso placido ma non privo di tensione, tanto più perché figlia di un’annata complicata, sia sulla carta che nel ricordo di Vincenzo.

Che bello!