C’è anche la Falanghina “Campo di Mandrie” 2017 tra i migliori assaggi del VinNatur Workshop svoltosi nel maggio scorso e che ha visto coinvolti una ventina tra giornalisti italiani ed esteri, produttori, ricercatori scientifici ed enologi.
La degustazione dei 166 vini prodotti dai soci VinNatur ha fatto registrare una “qualità media in ascesa rispetto agli anni precedenti, con alcune punte di eccellenza ma anche con vini che presentano difetti evidenti sui quali intervenire“. Tra i più apprezzati, comunque, c’è una delle due etichette di Falanghina* prodotte da Giovanni Iannucci, classe 1985, che tra l’altro è uno dei 2 nuovi ingressi in Slow Wine 2020 per quanto riguarda il Sannio (l’altro poi ve lo dico, eh).
L’annata 2017, che per la cronaca ha fatto registrare temperature piuttosto elevate, specialmente nell’areale di Castelvenere, dove si trovano le vigne di falanghina da cui si ottengono i grappoli per il Campo di Mandrie, è quella che si dice un’annata di “svolta”. Rispetto alla 2015 e alla stessa 2016, la vendemmia inizia ad essere “meno tardiva” ed aumentano di contro sensibilmente i giorni di macerazione. Stando ai primi assaggi, il millesimo 2018, non ancora in commercio, potrebbe rappresentare la quadratura del cerchio.
Staremo a vedere. 😉
* l’altra è La Forma, dal nome della località di Guardia Sanframondi dove si trova la vigna di falanghina, che è stata fin qui prodotta soltanto nel 2006.
Ritrovo questa Falanghina del Sannio – Ciesco della Mirella è il suo nome – diversi anni dopo una folgorante apparizione. Tutto merito di Pasquale Carlo, che in occasione di un pranzo beneventano aveva tirato fuori dal cilindro un Ciesco della Mirella targato 2005 in forma smagliante.
Ora non so dirvi come sia potuto accadere, tanto più che quel bianco piacque molto, sia a Luciano Pignataro che a me. Fatto è che questa boccia, firmata da Santimartini, una piccola azienda di Solopaca, è praticamente uscita dai miei radar per riapparire, in maniera del tutto inaspettata, soltanto un paio di settimane fa a casa di amici (e non l’avevo nemmeno portata io, eh!).
Il piacere del nuovo incontro non ha condizionato quello effettivamente imputabile alla bevuta del presente: un bianco dai toni gialli (e mica solo all’occhio), che fa 14 gradi alcolici, ma con una buona freschezza di fondo e direi anche lo stesso elegante portamento di quella volta.
Mi mancano i cioccolatini ripieni con lo stesso vino che leggo essere commercializzati già dal 2010. Vabbè, intanto li provo, poi vi dico! 😉
Pensavo, rileggendo uno dei commenti al post di Intravino sui locali “deprosecchizzati”, che la scelta di non vendere Prosecco sarebbe, al contrario e per certi versi, auspicabile in provincia, dove i soliti tristi “prosecchini” ben potrebbero fare spazio alle bollicine locali, meglio ancora se da uve autoctone.
Il fatto è che quelli che si trovano in città non sono mica i Prosecco (perdonate se, per comodità, glisso sulle specifiche dei territori più importanti di produzione: Asolo e Conegliano-Valdobbiadene) di Frozza, Mongarda, Nicos, Silvano Follador, Ca’ del Zago, Bele Casel, giusto per citare alcune delle aziende riconosciute come eccellenze. Anzi, si tratta spesso e volentieri di vini tutt’altro che indimenticabili.
Cioè, siamo sempre qui a riempirci la bocca con quella bella parolina (“territorio”), ormai quasi del tutto svuotata del suo reale significato, ci affanniamo a dire che la falanghina è un’uva versatile e adatta anche alla spumantizzazione, e poi che facciamo? Ci sediamo al bar per ammirare la Chiesa di Santa Sofia o l’Arco di Traiano e sorseggiamo i soliti anonimi “prosecchini”, nell’accezione più generale e (purtroppo) diffusa di “qualunque vino con (più o meno copiose) bollicine”. Ma non sarebbe meglio un calice di spumante di falanghina? Capisco che in passato grossi carichi di uve sannite partivano alla volta del Veneto per poi fare ritorno belli, tutti uguali ed effervescenti, ma oggi ci sono aziende che hanno investito e stanno investendo per spumantizzare in proprio e con buoni risultati.
Non mancano, insomma, vini spumanti da falanghinadegni di attenzione, tanto più che, particolare non da poco, hanno molto spesso un prezzo conveniente. Penso, per esempio, allo spumante brut di Corte Normanna, piacevole, cremoso ed equilibrato, pure discretamente complesso per il fatto di essere realizzato con uno “charmat lungo”, in cui la maturazione sui lieviti arriva fino a 11 mesi. Oppure al Levato, forma dialettale per “criscito”, lievito madre, il rifermentato di Flaviano Foschini a Vigne di Malies, sempre a Guardia Sanframondi: 600 bottiglie in cui la seconda fermentazione in bottiglia è innescata da mosto di falanghina dell’annata 2018, che segnano un ritorno alla tradizione rurale del vino per autoconsumo. Un vino semplice ma efficace, godibile e agrumato.
Per la cronaca, non mancano nemmeno spumanti di falanghina da metodo classico. Cito, per esempio, l’Auspicium, sempre di Vigne di Malies: il millesimato 2015 si è fatto 24 mesi sui lieviti, non è dosato, è fragrante e setoso, magari appena appena magrolino al sorso.
Ce ne sono di modi per bere altro che non i soliti “prosecchini”, non vi pare!?
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