Rubice 2020, la falanghina di Marco Tinessa

Rubice, Marco Tinessa

Rubice è l’unico bianco da uve falanghina prodotto, a partire dal 2019, dal 47enne di origini sannite Marco Tinessa.

C’è un primissimo motivo che mi spinge a parlarvi della Falanghina di Marco Tinessa, ed è che l’etichetta l’ha disegnata il celebre artista (e mio illustre concittadino) Mimmo Paladino. Mi piace tanto.

La mano – mi ha spiegato Marco – è lì a simboleggiare la fatica di chi coltiva la vite per farne vino, mentre i rami che spuntano dalle dita e le iniziali “appese” dei figli Ruggiero, Bianca, Celeste (Ru-Bi-Ce: questo bianco è intitolato a loro) sono la metafora dei frutti che provengono da questo impegno. I numeri sulle falangi rappresentano, infine, l’alchimia della fermentazione: è curioso ce ne siano alcuni più ricorrenti, mentre ne mancano altri (il 6 e l’8, ma proprio non saprei dirvi il perché).

Il focus resta, però, il vino in sé e il fatto che Rubice – quello che si direbbe un vin de négoce – è frutto di un’idea piuttosto “innovativa” per il Sannio: pigiadiraspatura e fermentazione sulle bucce per uno/due giorni in mastelli di vetroresina, fermentazione e affinamento in vetroresina e acciaio, infine aggiunta di 20 g/l di solforosa a fine malolattica.

Rubice 2020 e 2021

Ho di recente assaggiato sia il millesimo 2020, oggi in commercio, sia il 2021 appena andato in bottiglia: se il primo è vino “miracoloso” per le oggettive difficoltà logistiche legate alla sua genesi*, il secondo pare proprio essere un bel passo in avanti.

Sta forse nella scorrevolezza la cosa migliore del Rubice 2020, mentre le criticità sono, a mio avviso, una volatile parecchio accesa e una nota amara insistita, probabilmente riconducibile a una leggera sovraestrazione rispetto all’obiettivo di partenza, e cioè compensare il ridotto volume alcolico (11,5%) e dare maggiore spessore al sorso.

Presto per farsi un’idea esaustiva, ma il Rubice 2021 non ha di questi problemi, e qualcosa è cambiato pure per la provenienza delle uve (non solo Bonea e Montesarchio, ma anche un 15% di uve acquistate tra Castelvenere e Frasso Telesino). C’è sempre la volatile a introdurre il sorso, ma è meno scissa e più funzionale a esaltare un quadro aromatico di maggiore definizione. Mi piace di più questa, ma ne riparleremo poi.

* non c’era ancora l’attuale cantina di via Vitulanese a Montesarchio, s’è vinificato in un immobile temporaneamente adattato.

2001, che Falanghina a Fontanavecchia!

Senza fare troppi giri di parole, la Falanghina 2001 di Fontanavecchia è una bottiglia a cui sono molto affezionato, per tutta una serie di motivi.

Primo. Era una bottiglia “mito” già quando, una dozzina di anni fa, muovevo i miei primi passi da winelover. Capirete, dunque, se mi emoziono ancora quando mi capita di stapparne una.

Secondo. La 2001 di Fontanavecchia è la bottiglia che ha mandato in frantumi le (false) certezze e i pregiudizi di chi considerava la Falanghina solo un bianco a buon mercato, da consumare ghiacciato e sempre d’annata. Non che un vino debba per forza di cose invecchiare per vedersi riconosciuta dignità di eccellenza, ma – se permettete – la Falanghina può farlo eccome (e non mancano altri esempi in Campania).

Aggiungete, poi, che ho avuto la fortuna di osservarne la parabola evolutiva, specie negli ultimi 6/7 anni, coincisi con gli anni di una maggiore consapevolezza (almeno, voglio illudermi che io l’abbia raggiunta).

La Falanghina 2001: com’era?

Venti e passa vendemmie dopo, la 2001 di Fontanavecchia non può esimersi dal fare i conti con gli anni che passano. Qualche boccia storta o particolarmente “avanti” è capitata (quella nella foto di copertina, per esempio), ma altre ancora si sono concesse in tutto il loro splendore, nonostante qualche ruga in volto.

La bottiglia assaggiata qualche pomeriggio fa – al termine di un’interessante carrellata a tutta Falanghina, in compagnia di Giuseppe Rillo, di cui vi parlerò poi – andrebbe collocata, a ragion veduta, tra le più in palla mai provate, già a partire da un colore dorato bellissimo e tutt’altro che spento. C’è un filo di ossidazione – e ci mancherebbe –, ma il quadro olfattivo è pregevole, con note balsamiche e tostate di frutta disidratata, caffè, cera, rabarbaro. È la bocca, però, che sorprende più di ogni cosa, vanificando ogni timida velleità di datazione anagrafica: sorso placido, ancora supportato dalla freschezza, sinuoso ma al tempo stesso scorrevole, di lungo ricordo.

Cavoli se è invecchiata bene!

La splendida Falanghina dei Campi Flegrei 2006 di Agnanum.

Falanghina dei Campi Flegrei 2006, Agnanum

Vi ho già detto degli assaggi di Falanghina (e non solo) a La Sibilla e vi racconterò presto della mattinata trascorsa in compagnia di Raffaele Moccia, che mi ha scorrazzato in giro per i terrazzamenti della collina di Agnano. Una roba da togliere il fiato, credetemi!

Se n’è approfittato, ovviamente, per stappare qualcosina anche ad Agnanum, dove non mancano interpretazioni degne di nota della falanghina. A cominciare dal Sabbia Vulcanica, l’etichetta più “semplice”, almeno sulla carta, ma che trovo sempre più buona, con un prezzo davvero piccolo piccolo.

È questo, però, l’assaggio di cui conserverò più a lungo il ricordo, una Falanghina dei Campi Flegrei 2006 che mi ha fatto letteralmente sorridere sia per la qualità del vino in sé, sia per la curiosa storia che c’è dietro.

Ve la faccio breve, l’etichetta in foto non corrisponde affatto al contenuto della bottiglia, perché il vino è la Falanghina per così dire “base”, e non la Vigna del Pino (che fa un breve passaggio in legno). Il motivo è semplice e ha a che fare con una piccola dimenticanza di Lello Moccia: «pensavo di poter ricordare tutto all’inizio, compreso dove mettevo le bottiglie che conservavo. Ben presto mi sono accorto che non era così». Un contrattempo che costò un’intera giornata di stappo e assaggio bottiglie in compagnia dell’enologo di allora, Maurizio De Simone.

Curiosità a parte, questa 2006 è una Falanghina splendida. Il sottile velo ossidativo non toglie nulla in termini di complessità al vino, anzi. Detto che non era comunque stato ideato per durare così a lungo, siamo davanti a un calice dorato in ottimo stato di forma, appena magrolino forse sul centro bocca, ma stupefacente per finezza, definizione e complessiva integrità. Le note di frutta matura e di arancia amara si accompagnano a sensazioni balsamiche e resinose, anche leggermente affumicate, di liquirizia, terra, anice, rosmarino.

Un piccolo grande vino.

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